To The Bone: un passo indietro o un passo avanti?
L’annuncio era chiaro: “non vi aspettate la solita roba”. E se si pensa che già lasciando la K-scope e firmando con la Caroline, etichetta del colosso Universal, Steven Wilson aveva messo in allarme l’intera schiera dei suoi seguaci, che sentivano da più parti odore minaccioso di mainstream, si comprende facilmente il maremoto generale che ha investito in queste settimane il mondo del progressive rock; sì, perché con To The Bone siamo passati dichiaratamente al progressive POP. “Pop”. Che Dio ci salvi. Lo abbiamo pensato tutti.
Diffidenza e curiosità si mescolano all’attesa, dunque, in un ambiente come quello prog che è da sempre tra i più ostici e conservatori della scena musicale; e Steven Wilson lo sapeva bene quando aveva dichiarato l’intenzione di dar vita ad un album completamente nuovo, traendo ispirazione da alcuni dei suoi ascolti privilegiati, come Prince, gli Electric Light Orchestra, David Bowie, Peter Gabriel, i Tears for Fears, i Talk Talk. Ma il termine pop ha fatto comunque saltare dalla sedia qualunque nostalgico abbia seguito la strada da lui creata con i Porcupine Tree, nonché chi a lui si sia avvicinato grazie alle atmosfere avvolgenti e psichedeliche dei lavori successivi.
Una sfida, ma più con se stesso che col suo pubblico, quella che una delle figure più di spicco del prog moderno ha voluto abbracciare decidendo di creare un album completamente diverso dai precedenti e che fosse addirittura in grado di fare dello sconcerto generale il suo punto di forza, la sua capacità di affermazione, seguendo sempre e comunque il proprio personale dettame, più volte dichiarato, di voler fare solo ciò che gli piace, semplicemente sperando che possa piacere.
Queste le premesse di To The Bone, il quinto album solista dell’artista britannico, che verrà pubblicato il 18 Agosto e che è stato preceduto dall’uscita di quattro brani in esso contenuti, con una certa distanza di tempo l’uno dell’altro, forse per dare il tempo di essere metabolizzati a dovere. E, ammettiamolo, non è stato facile: i duetti, i cori, l’orecchiabilità delle melodie, persino la fotografia dei video incentrata su di lui a mezzo busto ci hanno confuso le idee; con ‘Permanating’, poi, ci siamo preoccupati sul serio, una vera aggressione alle nostre orecchie, abituate a tutt’altro. Ma è pur sempre Steven Wilson signori, e lui non ama lasciarci crogiolare nella nostra diffidenza: infatti, il resto dell’album sopraggiunge come un arcobaleno dopo la tempesta, lasciando da subito intendere che la cosa non sta esattamente come avevamo temuto, ma nemmeno evidentemente come speravamo che fosse.
L’ascolto dei brani diventa indispensabile più e più volte finché tutto prende rapidamente forma e l’obiettivo dell’artista si è rivela ben più ambizioso e arduo di un semplice tributo al pop inglese di quegli anni: ad uno sguardo più attento. In To The Bone Steven ha voluto inserire la sua caratteristica impronta, il suo segno di riconoscimento, quello che ha fatto di lui negli anni un genio indiscusso della scena musicale contemporanea, all’interno della riscoperta di un genere scomparso, appunto il pop, inteso come genere fruibile, riconoscibile, abbordabile, a tutto tondo. Un genere che gli permette, in più, di uscire dai suoi soliti panni dati ormai per scontati e cimentarsi in altre vesti, secondo il gusto per la sperimentazione che lo contraddistingue.
Il risultato di questa ricerca è stato un album fortemente eclettico, sia dal punto di vista dello stile che dei temi affrontati, che spaziano dal concetto di verità, al terrorismo, alle riflessioni esistenziali.
La prima traccia, ‘To The Bone’, ci introduce a questa nuova avventura di Wilson, accennando al tentativo di integrare soluzioni prog a melodie e strutture tipicamente pop: ritmica basso/ batteria incessante e ondeggiante, intervallata da riff di chitarre e doppie voci tipicamente ‘80. Pezzo aperto e arieggiato, canticchiabile, che scivola via senza grossi intoppi, fino all’assolo tipicamente Wilsoniano e al cantato finale cadenzato e segnato dal tempo che rimanda immediatamente alle atmosfere oniriche e alienanti a cui l’artista ci aveva abituati soprattutto in Hand. Cannot. Erase., il suo precedente album.
Andando avanti, incontriamo ‘Nowhere Now’, brano che si lascia bere tutto di un sorso: la voce di Wilson fa da intro e poi da accompagnamento ad un’aria strumentale aperta ma malinconica, una sorta di nostalgica riflessione dolce e amara nello stesso tempo. Il pezzo si snocciola senza troppi scossoni, mantenendo una sua linea gradevole e leggera fino alla parte finale, in cui la batteria si libera per esprimere un maggiore dinamismo ed articolazione del ritmo che imprime una maggiore incisività al messaggio musicale. Il pezzo chiude col piano e la voce di Wilson, che ancora una volta rimanda ad altri lidi del pensiero. Difficile togliersi dalla testa la melodia di questo pezzo.
‘Pariah’ è il primo brano che Wilson ha voluto rendere pubblico, con evidenti rimandi a Peter Gabriel e Kate Bush. Il duo Steven Wilson-Ninet Tayeb si esprime in uno scambio di voci pulito e ricco di pathos, finché la voce femminile, in un crescendo improvviso ed emozionante, ci conduce all’esplosiva apertura strumentale che segna una divisione equa delle due parti dominanti, quella vocale e quella in cui la parola viene lasciata alla pura suggestione sonora, proprio come in tante parti di Insurgentes.
Procedendo, incontriamo ‘The Same Asylum As Before’: qui Wilson si cimenta in un falsetto che imprime immediatamente una coloritura English pop al pezzo, il quale apre in una dimensione positiva e leggera, lasciando spazio ai riff decisi di chitarra e agli archi che regalano una maggiore orecchiabilità al tutto e danno vita ad una sorta di culla sonora in cui ci si può abbandonare, spensierati. Decisamente un pezzo “tormentone”, come anche altri all’interno dell’album.
Con ‘Refue’ si cambia decisamente registro: il brano rappresenta senza dubbio il volo onirico dell’album, introdotto dal piano e dalla voce controllata di Steven che, con un progressivo crescendo strumentale poggiato su un drumming cadenzato, conduce quasi epicamente all’emozionante armonica di Mark Feltham e all’incessante assolo di chitarra di Paul Stacey, assolo che prepotente avanza in ogni direzione, facendosi largo in una ritmica pesante e avvolgente in cui le sensazioni e i pensieri sembrano espandersi per poi evaporare. Senza dubbio il pezzo più suggestivo di To The Bone, con una coda finale che si assottiglia snocciolandosi tra piano, armonica ed effetti nostalgici.
La sesta traccia di To The Bone è l’incriminata ‘Permanating’: dentro ci abbiamo sentito di tutto, dagli Abba agli Electric Light Orchestra, e chi più ne ha più ne metta, una vera contaminazione dance pop per questo pezzo che arriva infelicemente dopo lo scossone poetico ed emotivo di ‘Refuge’. Eppure anche questo ha un senso: il brano, dice Wilson, vuole rappresentare i momenti di gioia nei quali amiamo rifugiarci per isolarci dal contesto e dalle preoccupazioni quotidiane, esprime la frivolezza, se vogliamo, di sporadici attimi che ci permettono di essere liberi nella nostra spensieratezza, così come ci suggerisce il video, in cui Wilson ritrova l’allegria nel guardare i ballerini di Bollywood esibirsi in una danza fresca e gioiosa. Dal punto di vista compositivo, ‘Permanating’ resta l’anello debole della catena, ma dal punta di vista della concezione dell’album ha il ruolo di ponte tra riflessioni profonde e complesse.
Attraverso ‘Blank Tapes’, che ci appare come un breve intermezzo in cui è presente nuovamente la voce di Ninet, giungiamo a ‘People Who Eat Darkness’: ulteriore brano leggero dell’album in cui da subito colpisce l’andamento rotolante e rockeggiante della ritmica sostenuta e crescente, caratterizzata dalla batteria molto aperta e la presenza incisiva del basso che procede all’unisono con la chitarra. Il finale strumentale dell’inciso ricalca molto quello indimenticabile di ‘Home Invasion’ presente in Hand.Cannot.Erase. L’ascolto del pezzo é facile e piacevole, forse anche troppo.
Ed eccoci a ‘Song of I’, terzo brano offerto al pubblico prima dell’uscita di To The Bone e che vede la partecipazione di Sophie Hunger: con un ritmo sensuale e cadenzato, accompagnato da un video ipnotico, ci sembra quasi di ascoltare Prince che fa dark-elettronico. Tuttavia anche qui, nell’alternanza tra tensione e apertura, nonché nella scelta degli elementi scenografici del video, è evidente il richiamo alle atmosfere inquiete di brani come ‘Harmony Korine’.
Finalmente con ‘Detonation’ avviene l’esplosione dell’ecletticità wilsoniana: la forte impronta prog funky-jazz si manifesta prepotente, snodandosi in un crescendo strumentale che culmina nell’assolo magistrale di David Kollar. La capacità di Mr Wilson di mantenere viva l’attenzione e la tensione fino agli ultimi secondi del pezzo raggiunge qui la sua piena realizzazione. Il pubblico dell’artista inglese può finalmente rilassarsi tra le sonorità avvolgenti e le dinamiche serrate di questo pezzo in cui il climax dell’intero To The Bone raggiunge il suo culmine.
Ma non è finita: ‘Song Of Unborn’ ci riporta, proprio sul finale, alle atmosfere alienanti di tanti Porcupine Tree, nonché alla epica sottesa di Hand.Cannot.Erase. Un’aria malinconica ma positiva si diffonde su tutto il pezzo, Wilson controlla la voce che guida l’intero brano, lasciandoci il tempo di trattenere quanto ascoltato in precedenza. È la chiusura logica di un album controverso, una quiete dopo la tempesta, un rasserenare gli animi dopo tanto stupore; è il corvo finale di The Raven That Refused To Sing, è la ‘Happy Returns’ di Hand.Cannot.Erase. È la nostalgia del tempo passato, ma anche l’aspettativa di ciò che verrà.
Può bastare ciò che avete vissuto? Vi soddisfa ciò che avete ascoltato?
Me lo auguro, perché questo sono io. Io visto da me. Fino all’osso. Io, Steven Wilson.
Non un passo indietro con To The Bone quindi, bensì un passo in avanti, un superare la sua arte, quasi un desiderare di trascenderla, per accordare, in un’unica intenzione, ciò che egli è sempre stato a ciò che sono gli altri diversi da sé e dal tipo di musica di cui è da sempre creatore e protagonista.
Sfidiamo qualunque amante della musica di Steven Wilson a non affezionarsi anche a “To The Bone”, che segna un altra pietra miliare all’interno del percorso stilistico e musicale dell’artista inglese.
Recensione di Lucia Grammatico;