Hand Cannot Erase: l’ennesimo capolavoro di un artista in costante evoluzione
Ogni volta che Steven Wilson fa uscire un nuovo album, si finisce per dire che ha raggiunto il vertice della sua produzione, salvo poi essere smentiti dall’uscita successiva. Hand Cannot Erase non fa eccezione: Wilson ha alzato ancora l’asticella, e non di poco.
Come se non bastasse, l’ha fatto senza ripetersi: pur senza rinnegare l’anima prog-jazz di The Raven That Refused To Sing, ha creato un nuovo linguaggio, in cui sono confluiti elementi molto eterogenei: suoni pop ed elettronici provenienti dal suo passato più o meno remoto (Porcupine Tree, No-Man, I.E.M., Bass Communion, Blackfield), l’assoluta libertà compositiva sperimentata con gli Storm Corrosion, i suoi ascolti del momento, l’esperienza maturata come compositore e come ingegnere del suono, che l’ha visto di recente impegnato nel remix di album cruciali di, tra gli altri, King Crimson, Jethro Tull, XTC e soprattutto Yes, che hanno influenzato di certo la sua scrittura.
Il risultato è un album stratificato e pieno di rimandi, ma al tempo stesso sorprendentemente autentico, diretto ed immediato. Se i suoi precedenti lavori solisti scuotevano pancia e cervello, Hand Cannot Erase. raggiunge direttamente il cuore, regalando momenti di commovente bellezza.
Lo spunto iniziale è stato fornito da un episodio di cronaca tanto assurdo quanto triste: il cadavere di Joyce Carol Vincent, una donna di nemmeno quarant’anni, con una vita normale, un lavoro terminato da poco, degli amici, una famiglia, è stato scoperto nel suo appartamento di Londra quasi tre anni dopo la sua morte. Riflettendo sui rapporti interpersonali, la vita nelle grandi città, gli affetti, la solitudine, le scelte, il caso, Wilson ha costruito un concept-album in cui la Vincent, o chi come lei, riprende vita con le sue vicende, i suoi pensieri e le sue emozioni.
Il gruppo di lavoro di Hand Cannot Erase. è lo stesso di The Raven, con alcune novità. Confermati Nick Beggs ai bassi, Marco Minnemann alla batteria, Adam Holzman alle tastiere ed arruolato definitivamente Guthrie Govan alle chitarre, è stato ridotto l’apporto di Theo Travis, in effetti l’elemento più jazz del sestetto. Inoltre, come non accadeva dai tempi di Up the Downstair e The Sky Moves Sideways dei Porcupine Tree (dove compariva la voce di Suzanne Barbieri, moglie del tastierista Richard Barbieri e cantante, attrice e scrittrice), sono state inserite due voci femminili: quella recitante della mezzosoprano Katherine Jenkins e quella, evocativa e potente, di Ninet Tayeb, una cantante israeliana conosciuta tramite Aviv Geffen.
Un ulteriore elemento di novità è rappresentato da un etereo coro di voci bianche, il The Cardinal Vaughan Memorial School Choir, ispirato da The Dreaming di Kate Bush. Wilson si è avvalso poi della collaborazione di Dave Stewart per gli arrangiamenti e dell’apporto di Dave Gregory (chitarre) e Chad Wackerman (batteria) in alcuni pezzi.
Non ancora soddisfatto, Wilson ha creato, con la collaborazione di Hajo Müller, Lasse Hoile e Carl Glover, un’edizione speciale di Hand Cannot Erase. corredata da un volume di quasi 100 pagine, un video per ‘Perfect Life’ che sembra il frammento di un film, e soprattutto un blog, presentato come se fosse scritto dalla protagonista dell’album, corredato da una ricca collezione di immagini, foto e documenti dal realismo impressionante.
L’album si apre con ‘First Regret’, un intro dall’atmosfera molto cinematografica che, dopo campionamenti ed effetti, scivola sulle note di un pianoforte verso ‘3 Years Older’, un pezzo movimentato come un saliscendi, dove ritornelli di sapore pop si intrecciano con assoli di chitarre, tastiere, ritmiche battenti e vere e proprie esplosioni polistrumentali.
La title-track ‘Hand Cannot Erase’ forse riuscirebbe a dare a Wilson quella popolarità radiofonica che ha inseguito invano con i Porcupine Tree: è un brano corto, dal testo immediato e che resta subito impresso, cantato da Wilson con voce limpida.
‘Perfect Life’ inizia con un parlato che riprende il post centrale del blog, in cui la protagonista racconta della sorella adottiva che ha avuto accanto per pochi mesi e che è stata l’unica persona che le sia mai stata realmente vicina. Il brano si sviluppa ondeggiando in una sorta di trance, mentre la voce di Steven salmodia un mantra rassicurante.
L’armonia è rotta con ‘Routine’, dove la banalità delle azioni quotidiane elencate da Wilson lascia presto il campo alla voce vibrante della Tayeb, che parla di sé mentre gli strumenti entrano ed escono dalla canzone, e svelano le sue reali emozioni, sottolineate dall’assolo cristallino di Leo Blair; il brano, quindi, si sviluppa in un crescendo drammatico, che raggiunge il culmine e poi si addolcisce in un arioso coro finale.
In ‘Home Invasion’, il clima si fa più cupo e minaccioso, mentre Minnemann e Beggs si fanno spazio tra suoni elettronici sincopati e vagamente spaziali, che si allentano in struggenti parti cantate. La successiva ‘Regret #9’ lascia invece ampia libertà espressiva ad Holzman prima e Govan poi, le cui note si intersecano con quelle del Chapman stick di Beggs, in un brano strumentale dalla tessitura complessa ed emozionante.
‘Transience’, dall’inizio enfatico e dall’andamento piano ma punteggiato da canti e controcanti, introduce la lunga suite ‘Ancestral’, in cui torna la voce della Tayeb e fa la sua comparsa anche Theo Travis, al flauto e sax baritono. ‘Ancestral’ è il brano più articolato dell’intera opera, composto da varie scene sonore dalla resa quasi pittorica, tra cui spiccano la profondità ipnotica del cantato, un lancinante assolo di Govan ed una cavalcata finale che toglie il fiato. Il pezzo era stato anticipato durante il tour di The Raven, suonato con un titolo diverso ogni sera.
L’album si chiude con Happy Returns, anch’esso già suonato come anticipazione durante l’ultimo tour. È una ballata ariosa, arricchita, come la successiva Ascendant Here On.., dal coro delle voci bianche e da un prezioso assolo di chitarra, che mette il punto finale al racconto restituendo un po’ di speranza.
Wilson ha dichiarato che la storia di Hand Cannot Erase. costruita finora con la musica, i testi e le immagini guadagnerà un’ulteriore dimensione durante i concerti, per cui lui ed i suoi collaboratori stanno studiando strumenti che coinvolgano gli spettatori ancora più delle volte precedenti, ed in cui forse sverranno sviluppati i contenuti anticipati nel video di ‘Perfect Life’ e nel blog.
Non ci resta che affidarci al suo talento e lasciarci affondare nel suo mondo fino a farlo entrare nel profondo di ciascuno di noi.
Recensione di Paola Macchiavello;
Cominciare l’ascolto di un nuovo lavoro di Steven Wilson richiede un certo impegno. Un ascolto superficiale e distratto porta molto spesso a giudizi frettolosi anche con opere di minor pregio ed è quindi ancora più invalidante qualora ci si trovi a cospetto di un concept del calibro di Hand Cannot Erase. che rappresenta un nuovo punto di arrivo per il leader dei Porcupine Tree giunto alla sua quarta fatica solista.
Si dice “squadra vincente non si cambia” e così ha fatto Mr. Wilson, riproponendo la stessa line-up del precedente e fortunato album The Raven That Refused to Sing con l’aggiunta della voce femminile (e questa è una novità) di Ninet Tayeb.
L’ispirazione per Hand Cannot Erase. parte da una notizia di cronaca: nel 2006 viene ritrovato il corpo in decomposizione di una donna morta circa tre anni prima in un appartamento di Londra, una tale Joyce Carol Vincent. Per tutto quel tempo nessuno l’aveva cercata: parenti, amici, conoscenti, una persona che aveva tagliato i ponti con tutti, era semplicemente “scomparsa” dal mondo delle relazioni umane, diventata invisibile.
Da questa storia agghiacciante Wilson trae lo spunto per la sua narrazione, trovando così il tema adatto per esprimere tutta la sua poetica con la quale spesso ci siamo imbattuti nelle sue opere: la solitudine nelle grandi città, la voglia di sparire, la disperazione. Il disegno complessivo viene arricchito da un diario fittizio dove un immaginaria protagonista ci accompagna progressivamente nel suo mondo di solitudine che via via sprofonda in un delirio allucinatorio fino allo scollamento dalla realtà.
Musicalmente ci troviamo di fronte ad una delle opere più complete di Steven Wilson che recupera in parte quell’ampiezza di linguaggi alla quale ci aveva abituati con i suoi Porcupine Tree, quindi accantonando, almeno per il momento, quella ricerca vetero-progressive che ci aveva proposto nelle sue opere più recenti.
Il drumming evoluto di Marco Minnerman trova finalmente tutto il suo spazio nell’irresistibile ‘Home Invasion’, e in ‘3 Years Older’ ci sembra quasi di ascoltare la parte strumentale di ‘The Cinema Show’ dei Genesis in una versione futuribile con un impatto quasi metal, mentre il basso di Nick Beggs (e forse dello stesso Wilson) si libera su note più alte osando in territori cari a Chris Squire degli Yes.
Non ci sorprenda dunque l’inizio “trip hop” di ‘Perfect Life’ con la sua voce femminile o la melodia lineare da perfetta canzone pop di ‘Hand Cannot Erase’. Tutti i linguaggi sono ai fini di una narrazione, di una figura ipertestuale che porta a quel disegno finale che in altri tempi avremmo definito “concept album”.
‘Transience’ invece ci riporta ai Porcupine Tree di ‘Lips of Ashes’, con quella sensazione di sospensione nel vuoto.
Poi si arriva al gioiello dell’album, ‘Ancestral’, che con i suoi 12 minuti è un compendio della migliore arte wilsoniana, con i suoi momenti di pathos e con una drammatica progressione crimsoniana che assume i contorni di tragedia classica. In tale cornice da sottolineare gli splendidi “assolo” di chitarra di Guthrie Govan, il certosino lavoro alle tastiere di Adam Holzman e i fiati discreti e suggestivi di Theo Travis.
Con ‘Happy Returns’ e ‘Ascendant Here On troviamo la degna conclusione di un tale lavoro. I suoni lontani che hanno aperto Hand Cannot Erase. tornano introducendo la bella melodia della prima mentre nella seconda un lontano coro di voci bianche fa da sottofondo alle note di un pianoforte che ripropongono il tema intimista di ‘Perfect Life’.
Tutto ciò che è nato dal nulla ritorna nel nulla, ed il racconto di una vita inventata che ricalca quella di mille vite, diventa l’unica testimone di una storia che non vorremmo mai ascoltare, ma che scorre davanti ai nostri occhi indifferenti, tutti i giorni.
Recensione di Paolo Pagnani;