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Il 29 gennaio 2021 uscirà finalmente The Future Bites, sesto album della carriera solista di Steven Wilson.
In realtà la pubblicazione di questo nuovo lavoro era prevista per il 12 giugno 2020, ma è stata posticipata a causa di problematiche legate all’emergenza Covid-19, obbligandoci così ad altri sette mesi di attesa e regalandoci, allo stesso tempo, l’opportunità di assimilare meglio i quattro singoli estratti dall’album e pubblicati in tranche diverse: da ‘Personal Shopper’ uscito a marzo, passando per ‘Eminent Sleaze’ e ‘King Ghost’, fino ad arrivare a ’12 Things I Forgot’, apparso in rete circa due mesi fa. A queste tracce si è aggiunta recentemente anche ‘Man of the People’.
Potremmo soffermarci a lungo su cosa abbia significato questo periodo di ingestione del nuovo materiale Wilsoniano all’interno della vasta comunità dei suoi fan, rivangando ad libitum le discussioni, la palese diffidenza, lo stupore, l’ansia mista ad orrore, così come la devozione incondizionata, la fiducia smisurata, l’attesa entusiastica, in poche parole le diaspore che un orizzonte musicale come quello esposto oggi in vetrina dall’artista britannico abbia prodotto: un quadro innegabilmente lontano da certi lidi di marchio “progressive” in senso assoluto, oramai apparentemente superati.
Potremmo certamente scandagliare questi aspetti, ma non lo faremo perché a ben vedere si tratta dell’ovvia cronaca di una morte annunciata: quella del vedersi ancora appiccicata addosso l’etichetta “doc” di un genere che sembra ormai rappresentare un fattore imprescindibile più per il pubblico inneggiante che per l’artista stesso.
Già con l’uscita di To The Bone era ormai chiaro l’abbandono da parte di Wilson delle atmosfere claustrofobiche e ansiogene di Insurgentes o dell’epica orchestrale di Grace for Drowning, giusto per citare qualcosa degli albori della sua carriera solista: la frattura col passato si era ormai palesata nelle tracce dell’album del 2017 e, che venisse accolta o meno, era prevedibile che da quel momento in poi certe sonorità dovessimo togliercele dalla testa, ma non dalla memoria.
“I have never thought of myself as a generic artist. And that’s not to say that I don’t acknowledge that I have made albums have tended to be the most successful of my career. But I started in a synth group called No-Man and I spent years making ambient music as Bass Communion”
Come dire, il progressive rappresenta una parte di me, quella più acclamata, ma non mi sono mai riconosciuto soltanto in quello.
Questa è la prospettiva dalla quale preferiamo analizzare ciò che siamo invitati ad ascoltare e che ci sembra la più rispettosa verso una figura che è soprattutto di artista, prima che di strumentista; di innovatore, prima che di “genio del prog moderno”; di amante incarnato del suono e della sua definizione, prima che di compositore. Una personalità eclettica che ha più volte ammesso di ammirare, sopra tutti, il padre stesso dell’ecletticità, un certo Prince.
D’altro canto, rispondere alle aspettative dei colleghi o dell’audience non è mai stato oggetto di interesse per l’ex leader dei Porcupine Tree: se così non fosse, probabilmente la nostra tanto rimpianta band sarebbe ancora in vita.
È una questione di identità e di identificazione. E questo è, per certi versi, anche il tema di The Future Bites, prodotto che osservato da questo punto di vista, scevro da aspettative o pregiudizi, appare di fattura apprezzabile e accattivante ad ogni ascolto di più. Veniamo allora a questo nuovo album, che rappresenta la svolta elettronica nella carriera dell’artista in chiave pop, ma non solo.
Fedele alla definizione di un concept di fondo, l’argomento che Wilson snoda nelle nove tracce del suo ultimo lavoro è il pericolo nascosto nell’era della digitalizzazione e del consumismo sfrenato, un’era che rischia di inghiottirci e di annullarci nella dimensione del non essere, soprattutto a causa del carattere persuasivo e direzionale dei social media. L’errore non è Internet in sé, dice l’artista britannico, ma l’uso che se ne fa a livello puramente narcisistico.
Tutto ciò si traduce nella densa e potente nuvola elettronica di The Future Bites, in cui la proverbiale oscurità di Wilson sembra essere scossa da bagliori artificiali di cori, falsetti e fluttuazioni danzerecce apparentemente allegrotte, mentre in realtà non fa altro che mascherarsi sadicamente di ironia e black comedy.
Questo è il mood generale dell’album, il quale ha inizio, però, con qualcosa di assolutamente inaspettato: un synth fortemente evocativo alla Radiohead raggiunge da luoghi remoti l’intro di ‘Unself’, pillola lirica di poco più di un minuto in grado di racchiudere in sé il senso dell’intera playlist. Con una forte sospensione e poche, incisive frasi, tutto qui è inizio e fine. L’animo di Wilson è svelato già nell’intro dell’opera, lasciandoci trepidanti per ciò che ne seguirà.
Lo svolgimento della trama non si fa attendere, anzi ‘Self’ irrompe prepotente, in maniera diametralmente opposta ad ‘Unself’: guardinga, quasi contratta e viscerale la prima, potente e d’assalto la seconda, con la sua elettro dance tipicamente anni ‘80 e lo svelarsi di cori già sperimentati in ‘Permanating’.
L’alta definizione del suono, risultato dell’indovinata collaborazione con David Kosten, è ancora più evidente nella successiva ‘King Ghost’, il cui intro dai bassi ipnotici e avvolgenti accompagnati dalle percussioni di Jason Cooper, batterista dei The Cure, unitamente all’uso sapiente della voce di Wilson, conduce all’ascesa di un dramma esasperato e senza uscita: un’atmosfera che sembra espandersi, ma resta lì, contenuta, quasi opprimente, producendo un effetto tossico e onirico insieme, simile ad un viaggio di dipendenza da stupefacenti:
“You can wash away the dirt
But you can’t wash away the failure”
‘King Ghost’ è indubbiamente un brano di altissima qualità, tra i preferiti dello stesso Wilson che non a caso ha chiamato Jess Cope a realizzarne il videoclip, così da regalargli una suggestione ancora maggiore.
Procedendo, incontriamo ’12 Things I Forgot’, sicuramente la traccia più orecchiabile di “The Future Bites“, in cui la chitarra torna protagonista e la linea melodica si fa più regolare, riadagiandoci dolcemente a terra dopo il decollo senza paracadute di ‘King Ghost’.
In classico stile wilsoniano, dopo un attimo di pausa dalle sensazioni estreme precedentemente sollevate, ricompare il mood dominante con ‘Eminent Sleaze’: tra battiti di mani e un diffuso riecheggio Floydiano, Mr. Wilson si fa spazio nelle vesti dell’uomo d’affari più potente del mondo, ovvero colui in quale, sbaragliando la concorrenza, resta come unico essere umano in “limited edition”. La resa grottesca del leitmotiv dell’album raggiunge qui il suo apice, sottolineata dai fraseggi di una chitarra smagliata, registri vocali vari e tanta, tanta ispirazione anni ‘80.
Ancora i Pink Floyd ci sembra di ritrovare in ‘Man of The People’, traccia curata e pulita, che soffia correnti di aria fresca tra le densità dei bassi, solidi mattoni in questa architettura di stampo ancora una volta elettronico. La chiusura dell’inciso e del finale della canzone riportano alla memoria l’accordo conclusivo della title-track di To The Bone con la stessa identica intenzione.
La constatazione di un sistema “autocentrante”, che rischia di renderci ossessivamente legati alle immagini rimandate ogni giorno da uno schermo o alla necessità di acquisti spasmodici e inutili dettati unicamente da una forma preoccupante di dipendenza, trova piena espressione in ‘Personal Shopper’: primo singolo estratto da The Future Bites, di rock progressive conserva sicuramente la durata, quasi dieci minuti di compendio di generi che vanno da Donna Summer al synth pop, il tutto sostenuto da un’incessante elettro dance che trova modo di dare spazio alla voce volutamente impersonale di Elton John ad elencare una lista di prodotti assolutamente superflui ma necessari ad esaltare il culto del sé. Un tempo piuttosto lungo per un ascolto che in realtà si beve in un sorso ed in maniera estremamente piacevole, data la struttura variopinta che lo caratterizza e il basso dall’indiscutibile e scanditissimo groove.
Procedendo verso le tracce di coda di The Future Bites incontriamo ‘Follower’, riferimento quasi scontato al labile panorama degli influencer e dei social media orientato alla rincorsa della gratificazione e della soddisfazione del proprio esibizionismo in tempo reale, seppur per pochi istanti. La sezione ritmica lanciata in velocità, gli effetti di tastiera che in un susseguirsi di ondate raggiungono e avvolgono gli strumenti, la voce di Wilson e la chitarra che affiancano la fuga, contribuiscono all’idea di questo moto ininterrotto e superficiale. Il tutto risulta, però, un po’ eccessivo all’ascolto: l’intro aveva promesso un’idea diversa di sviluppo del brano, che purtroppo sembra quasi perdersi nel caos.
‘Count Of Unease’, invece, non delude e conferma la tradizione della scelta intensamente lirica dell’artista in chiusura di album: brano estremamente delicato, sia nella gestione vocale che nell’esecuzione strumentale, si avviluppa tutto nel suo manto interiore, l’aria si placa, il ritmo frenetico di ‘Follower’ cessa, lasciando spazio ad una fragile e debole ombra del vero sé. Una resa volontaria ma graffiante, quella di ‘The Raven That Refused To Sing’, drammaticamente obbligata, quella di ‘Happy Returns’, disperata e insieme speranzosa, quella di ‘Song of Unborn’ e infine quasi lasciata emergere da un fondo di ineluttabilità, questa di ‘Count Of Unease’, che carezzevolmente ci conduce al termine di The Future Bites, a lasciar sopire le emozioni.
Con The Future Bites Steven Wilson mostra l’intenzione di tagliare i ponti con la nostalgia e con il sound del passato, per rivolgersi ad una contemporaneità interpretata in modo assolutamente originale. I singoli estratti, in un primo momento spiazzanti, hanno trovato un nuovo senso all’interno dell’album, quasi per effetto di una strana alchimia in grado di realizzare una coerenza d’insieme e una dinamica pressoché perfetta all’ascolto, nonostante, è da ammettere, l’inserimento di una quantità indefinita di cori e voci di vario tipo possa apparire piuttosto ridondante. La produzione di eccellente qualità è un piacere per le orecchie. Infine, l’immersione negli abissi della propria interiorità è garantita, anche se con un registro tecnico diverso da quello a cui siamo abituati.
Recensione di Lucia Grammatico;