Nonostante l’Inghilterra sia flagellata da venti di burrasca e Londra sia totalmente paralizzata da un raro quanto massiccio sciopero della metro, niente ferma gli affezionati fan dei Blackfield, che riempiono e infatti il confortevole Koko (già Camden Palace) rapidamente dopo l’apertura delle porte alle 19.
Due gruppi di apertura ci dilettano nell’attesa: The Red Paintings e il brillante cantautore Dave McPherson del gruppo InMe, che tra un brano e l’altro ci confida quanto sia stato eccitante per lui aver fatto il soundcheck con Steven Wilson in persona di fianco a lui.
Pur non essendo una data sold out, quando i Blackfield salgono finalmente sul palco, alle 21.10 (in ritardo di venti minuti sul programma), il pubblico del parterre inizia a stare stretto e molti già occupano abusivamente il secondo ordine di palchi (è un teatro a struttura tradizionale), i quali in teoria sarebbero off limits. Io mi trovo nel mezzo del parterre e apprezzo l’ottima acustica del teatro, nonché delle luci di scena, che non sono nulla di straordinario ma sono di certo ben gestite.
Secondo il loro stile, Steven, Aviv e compagni israeliani salgono rapidamente sul palco senza troppe cerimonie e attaccano subito a deliziarci con ‘Miss U’, chiarendo immediatamente che la serata sarà alquanto nostalgica e incentrata sui brani dei primi due album, i loro capolavori. In effetti i Blackfield hanno chiesto sulla propria pagina Facebook di indicare le proprie preferenze per la scaletta di questo mini tour europeo, che inizia proprio oggi a Londra, e non dubito che abbiano tenuto conto dei suggerimenti ricevuti.
Segue ‘Pills’, brano di punta del nuovo album, che viene accolta bene da un pubblico affezionato e più caloroso di quel che mi aspettassi. Ci sono fan di ogni genere: giovani con i capelli lunghi, ragazze che ballano, trentenni costantemente muniti di birra, coppie quarantenni dall’aria perbene e i classici anziani proggers con la maglietta dei Marillion. La band è in gran forma e ci spazza via con il terzo brano, ‘Blackfield’ in persona. Tra il pubblico, tutti cantano a squarciagola. Segue ‘Faking’, di nuovo dall’album appena uscito, meno orecchiabile di ‘Pills’ ma altresì gradevole.
Quindi ci aspettano ben quattro brani classici di fila: ‘My Gift of Silence’, la mitologica ‘Pain’, la cara vecchia ‘DNA’ che prometteva tanto bene nello scorso tour e ‘Go to Hell’, sempre dal terzo album, il cui testo (“Fuck you all, fuck you”) non manca mai di scandalizzare le varie fidanzate o mariti che sono al concerto in veste di accompagnatori. La band è decisamente lanciata, un meccanismo ben oliato e affiatato. Seffy Efrati al basso è particolarmente in risalto, forse grazie a un buon tecnico al mixer: il suo basso vigoroso e brillante dà corpo al suono, e come sempre si conferma un ottimo cantante corista. Veniamo sollevati e portati dolcemente su un altro pianeta dalle bellissime note della ballata ‘Jupiter’, vetta dell’ultimo album, tutta incentrata sui soavi toni vocali di Steven Wilson, e quindi da ‘Dissolving with the Night’, gestita invece da Aviv.
Quindi inizia la parte per me migliore del concerto: una serie di brani direi eccezionale. ‘Where Is My Love?’, quindi ‘1000 People’, che il pubblico canta con passione, ‘Some Day’ con il suo crescendo strappacuore (mai suonata dal 2007), ‘Once’ e la malinconica ‘Summer’ (anche quest’ultima, sottolinea Aviv, non viene suonata live da anni, dal 2005 in effetti). Nel frattempo, Steven si rilassa visibilmente, sorride spesso e si nota che ha inserito nella sua mimica da palco anche quei famosi buffi gesti con le mani davanti al viso, che sono ormai parte integrante dello spettacolo quando suona con la propria band, specialmente nel corso del 2013 con lo straordinario tour di The Raven.
‘Oxygen’ fa scatenare il pubblico, che si azzarda a battere le mani a ritmo: almeno un terzo della sala si lancia. Una volta concluso questo brano, Steven imbraccia la Fender Stratocaster rossa e bianca e chiede al pubblico se qualcuno la riconosca. Spiega che non la suona dal 1999, o forse perfino dal 1997 (nessuno lo sa o osa correggerlo). Poi scherza sul fatto che hanno già suonato sedici brani, contandoli direttamente dalla scaletta incollata ai suoi piedi: se fosse stato con la “sua” band, dice, a questo punto del concerto, dopo un’ora sul palco, sarebbero giunti appena alla fine del secondo brano! Tutti ridono (o si spaventano), ma io non posso fare a meno di notare che si tratta di astuta pubblicità occulta.
Oppure Steven è davvero così ossessionato dal proprio progetto solista, come in effetti dimostra il fatto che questo è ufficialmente il suo ultimo tour con i Blackfield, da non poter fare a meno di citarlo sempre, come certi innamorati che trovano riferimenti al proprio amore in ogni cosa, anche le più improbabili. Si farà comunque perdonare per questo momento per me un po’ amaro (visto che mi ha rammentato che questo è un vero e proprio tour di addio) con una splendida ‘Hello’, presentata come ultimo brano… tra virgolette. È il pezzo in cui Steven usa il suo famoso portatovagliolo di ottone come slide per la chitarra, ottenendo quell’inconfondibile suono floydiano che è sempre un picco altissimo, da pelle d’oca, per me e credo anche per molti altri fan.
È giunto il momento in cui la band si ritira per poi ritornare sul palco dopo un intervallo brevissimo, senza neanche essere molto acclamata. Aviv ha il suo momento di gloria con ‘Glow’, struggente come sempre, e poi inizia la meravigliosa ‘End of the World’, che come finale di concerto è davvero adatta, con le sue tastiere orchestrali, sempre gestite discretamente ma molto abilmente da Eran Mitelman. Non sono sicura che suoneranno in chiusura ‘Cloudy Now’, vero e proprio inno per i fan come me, visto che non l’hanno fatto nella data zero del 2 febbraio a Tel Aviv; invece i Blackfield ci fanno anche questo regalo d’addio, mettendoci la consueta passione. Tomer Z conclude con un mini solo di batteria veramente esaltante, ricordandoci quanto sia bravo, cosa che la semplice struttura dei brani dei Blackfield non mette in effetti quasi mai in risalto. Un concerto di qualità eccellente, insomma, all’altezza di qualsiasi aspettativa. Rimane, insieme alla sensazione di romantica magia, tratto caratteristico dei Blackfield, la tristezza della consapevolezza che non ne saremo mai più parte.
Non ci resta che attendere con ansia che Steven Wilson entri in studio per registrare il seguito di The Raven, cosa che senza dubbio farà quanto prima, per poi deliziarci con un nuovo capolavoro e un nuovo tour da solista.
Recensione di Domizia Parri