In effetti Gabriele D’Annunzio e Steven Wilson qualcosa in comune ce l’hanno. Certamente, da quanto ci è possibile ricostruire e ipotizzare, non il carattere, tanto diverso quanto distanti gli stili di vita e le idee politiche, ma quando si parla del modo di concepire l’arte sono molti i punti in comune tra i due.
Sicuramente l’essere entrambi dei perfezionisti e il morir dalla voglia di ricrearsi come artisti, al punto da costringere la critica a suddividere le loro opere in “fasi” che tuttavia raggruppano con grande fatica gli ingenti cataloghi di due menti malleabili ed infinitamente dotate, capaci di svariare tanto su tutti gli ambiti di letteratura e musica – dalla prosa alla lirica, dal metal più estremo al pop più orecchiabile – quanto andando oltre le loro sfere di competenza, sbarcando sovente su lidi appartenenti ad altre arti, come la musica e la danza il poeta pescarese, la scrittura il compositore di Hemel Hempstead, per non parlare dell’amore e l’attrazione di entrambi nei confronti del cinema.
E se D’Annunzio con le sue opere puntava a diventare il “vate” della nazione italiana, Wilson attualmente potrebbe fregiarsi di un titolo simile nei confronti di un certo panorama musicale che forse definire oggi “progressive” rischia di risultare, come lui spesso dice, anacronistico e riduttivo.
Sarà dunque per questa serie di motivi che la suggestiva ed epica cornice dell’Anfiteatro del Vittoriale di Gardone Riviera, nel “giardino di casa” di Gabriele D’Annunzio e col Lago di Garda in bella vista sullo sfondo, sembra essere perfetta per lo spettacolo di Steven Wilson, che torna con la sua band in Italia dopo poco più di due mesi dai concerti di Trieste e Firenze. Concerto più corto del mastodontico show presentato ad aprile, ma non per questo meno efficace ed emozionante, con il full length Hand.Cannot.Erase. eseguito quasi per intero (‘Perfect Life’ e ‘Transcience’ sono state escluse) più un brano per ogni album solista fin qui pubblicato e qualche classico dei Porcupine Tree ad aggiungere spessore.
Scongiurato il rischio pioggia, la band sale con qualche minuto di ritardo sul palco per eseguire col solito grandissimo affiatamento il trittico ‘First Regret’, ‘3 Years Older’ e ‘Hand.Cannot.Erase.’, al termine del quale Steven ci invita a ripensare alla sconfitta della nazionale italiana contro la Germania all’Europeo di calcio per prepararci al meglio all’esecuzione di ‘Routine’. Certo le immagini dei rigori di Zaza e Pellè possono fare ancora male agli appassionati, ma neppure il più fanatico dei tifosi sarebbe riuscito a non abbandonarsi completamente alla bellezza di un pezzo cantato, per la prima volta in Italia, dalla cantante israeliana Ninet Tayeb.
Mentre sono ancora vivi i brividi per uno dei pezzi più malinconici mai stati composti, ecco che Wilson decide di fare un salto nel suo passato da leader dei Porcupine Tree eseguendo ‘Lazarus’, esempio lampante, per ammissione dell’autore stesso, di come spesso siano i brani più semplici quelli di cui è più soddisfatto, prima di tornare al materiale più recente e complicato con l’accoppiata ‘Home Invasion/Regret #9’, al solito uno dei momenti migliori dal vivo, con Wilson impegnato ad aggredire letteralmente il suo basso e il duo Holzman-Kilminster a prendersi le luci della ribalta con virtuosismi al moog e alla chitarra di primissimo livello. Ninet viene quindi richiamata sul palco per cantare ‘Ancestral’, uno degli highlight della serata, in particolare nel lunghissimo finale strumentale, con la sessione ritmica Blundell-Beggs in modalità dinamite e Wilson scatenato a sparare bordate dalla sua PRS.
La dolce ballata ‘Happy Returns’ e il breve strumentale ‘Ascendent Here On…’ chiudono il ciclo di pezzi tratti da Hand.Cannot.Erase., ma non c’è tempo per rilassarsi, anzi: la claustrofobica ‘Index’ e la travolgente ‘Harmony Korine’ sono gli ormai immancabili classici della carriera solista di Wilson – non a caso i due pezzi più eseguiti dal vivo da quando il compositore inglese ha cominciato a suonare come solista – e finché non stancano band e pubblico è giusto che continuino ad essere suonati.
Così come è giusto guardare ogni tanto indietro nel tempo e ripescare classici come ‘Don’t Hate Me’, brano registrato già dai Porcupine Tree ma eseguito nella nuova versione presente nell’EP 4 1/2, uscito lo scorso febbraio, con Ninet a cantare il ritornello, Holzman ad incantare con un assolo al piano elettrico tra i momenti più belli della sera, e un’atmosferica e psichedelica parte centrale che fa tornare ai Porcupine Tree della prima era. Inedito invece in 4 1/2 era ‘Vermilioncore’, strumentale ipnotico e coinvolgente in uno stile – tra il drum ’n bass e il metal – che stando ad alcune dichiarazioni di Wilson potrebbe avvicinarsi a quanto ha già composto per quello che sarà il suo prossimo album solista, che dovrebbe uscire a novembre 2017 in occasione del suo cinquantesimo compleanno.
Chiude il set ‘Sleep Together’, con Ninet a sorpresa sul palco per il ritornello come lo scorso marzo a New York, quando Steven vittima della laringite aveva perso la voce, in una soluzione che ha esaltato una parte del pubblico ma deluso un’altra, che tuttavia avrà sicuramente perdonato i due cantanti quando, come primo pezzo dei bis – e col pubblico finalmente in piedi per la gioia di tutti – hanno eseguito in duetto ‘Space Oddity’, il classico di David Bowie che già la band aveva suonato in giro per il mondo – ma mai in Italia – come tributo al grande genio della musica scomparso lo scorso gennaio.
Alla fine, come ultimi due graditi regali ai fan, ecco arrivare la classicissima dei Porcupine Tree ‘Sound of Muzak’ e la struggente ‘The Raven that Refused to Sing’, una canzone che parla di fantasmi e spiriti che popolano il nostro mondo, il nostro animo, il nostro passato, il nostro presente e il nostro futuro.
E chissà, a proposito di spiriti, cosa avrà pensato Gabriele D’Annunzio alla fine dello spettacolo messo in scena nel suo giardino di casa da questo curioso quarantanovenne elegante ma aggressivo, minuto ma straripante e della sua musica eclettica e variopinta. Probabilmente avrà ripreso le bellissime parole dedicate al rumore del mare in “Le vergini delle rocce”, sua opera del 1895: «Ah, io starei ore e giorni ad ascoltarlo – parvemi dicesse Violante mettendo su la sua voce un velo più grave – nessuna musica vale questa per me».
Perché è vero che il mare stupisce ed affascina sia quando è calmo che quando in tempesta, ma lo stesso, oggi, si può dire anche di Steven Wilson e della sua band.
Recensione di Marco Del Longo;