La carriera musicale di Steven Wilson è stata segnata, sin dall’inizio, da un continuo contaminarsi e sostituirsi di influenze e generi, esplorati per quasi trent’anni sotto diversi pseudonimi e con diversi collaboratori.
Ad inizio anni ’90, mentre con i no-man rilasciava il primo singolo, un’interpretazione con influenze hip-pop e assoli di violino di ‘Colours’ di Donovan, sotto pseudonimo Porcupine Tree componeva e registrava senza distinzione lunghi pezzi come ‘Radioactive Toy’, delicate ballate acustiche quali ‘Nine Cats’ e curiosi esperimenti psichedelici del calibro di ‘Jupiter Island’ e ‘Linton Samuel Dawson’.
Quando poi i Porcupine Tree divennero uno dei più importanti gruppi della scena underground mondiale, esponenti di un rock che aveva le sue radici nella psichedelia e nel progressive di Pink Floyd e King Crimson ma che mai disdegnava il connubio con elettronica e pop, con i progetti solisti Incredible Expanding Mindfuck e Bass Communion Wilson manifestava l’amore per il krautrock e per la musica ambient e drone.
E se nei primi anni 2000 l’occhialuto cantautore britannico indirizzava la sua band verso un sound più heavy di scuola Opeth, l’innata inclinazione alla melodia e al formato canzone trovava più di una valvola di sfogo nei tradizionali Blackfield e negli avanguardisti – e riesumati – no-man.
Tanti nomi e lavori prodotti, diversi stili e modalità di successo, ma un unico – e indispensabile – comune denominatore: la regia, unica o al più condivisa, di Steven Wilson. Un musicista eclettico e poliedrico che, nel tentativo di mettere in pace tra di loro le diverse sfumature del suo ‘musical DNA’, ha messo in stand-by tutti i progetti di cui era a capo per poter comporre, produrre e rilasciare musica col suo nome, senza distinzione di etichette e genere e assumendosi tutte le responsabilità e i rischi del caso. Così, in soli dieci anni, Wilson è passato dal post punk e dallo shoegaze di Insurgentes (2008) al fine art pop di To The Bone (2017), tributando nel mezzo due lavori all’approccio concettuale prima (Grace for Drowning, 2011) e meramente stilistico poi (The Raven that Refused to Sing, 2013) del progressive anni ’70 e arrivando – almeno per chi scrive – all’apice espressivo nel variegato e drammatico concept Hand.Cannot.Erase. (2015).
Questo lungo preambolo – riassunto in quattro fasi di una carriera che per essere raccontata avrebbe bisogno di un’enciclopedia – può tornare utile per definire come, stando a quanto visto e sentito durante il concerto di Steven Wilson e band nella suggestiva cornice del Teatro Romano di Verona dello scorso 25 giugno, la pace tra le diverse identità musicali del cantautore inglese sia se non fatta, almeno vicina. Terza data italiana del To The Bone World Tour, il concerto di Verona ricalca nella quasi totalità le scalette degli show di Milano e Roma dello scorso febbraio, con l’ultima fatica in studio riproposta per nove undicesimi, sei brani tratti dai precedenti dischi solisti (l’unico non rappresentato è Insurgentes), cinque pezzi dei Porcupine Tree e uno dei Blackfield.
Lo show può essere descritto come un giro su una montagna russa della durata di tre ore attraverso le più diverse sfumature della psiche umana. Così, all’inizio pop di ‘Nowhere Now’ e ‘Pariah’, la prima rivisitata con un arrangiamento decisamente più rock e d’impatto, la seconda con la faccia dell’assente Ninet Tayeb che appare nello schermo gigante dietro la band, segue il turbinio prog di ‘Home Invasion’ e ‘Regret #9’, al solito vetrina per le ispirate tastiere di Adam Holzman e per la chitarra di Alex Hutchings, quest’ultima forse meno efficace che non in altre date del tour.
La batteria di Craig Blundell e lo stick di Nick Beggs d’altro canto sorreggono l’ossessiva base di ‘The Creator Has a Mastertape’, primo recupero di scuola Porcupine Tree nel quale Wilson, oltre ad aizzare la folla con i potenti riff della sua Telecaster, mette in luce i notevoli progressi ottenuti negli ultimi anni dal punto di vista canoro, passando con grande facilità dall’ottava bassa delle strofe a quella alta del ritornello. Il continuo saliscendi che fin qui ha caratterizzato lo spettacolo raggiunge uno dei momenti più drammatici quando la coda metal di Creator sfuma in una lunga introduzione al pianoforte per Refuge, vera e propria gemma da To The Bone, accolta con un’ovazione da un pubblico presente e caloroso per tutta la serata.
Ed è proprio Wilson a coinvolgere i fan, invitandoli già ad inizio concerto a manifestare il loro entusiasmo – “Non è un concerto di Eric Clapton. Dopo tutto siamo una sexy rock ’n roll band!” – ed intrattenendoli con lunghi e divertenti sketch: in uno di questi introduce l’aggressiva ‘People Who Eat The Darkness’ presentando agli under 25 in platea la sua nuova chitarra elettrica, manufatto molto famoso nella seconda metà del ventesimo secolo e nell’ultimo ventennio di fatto inesistente nel mondo della musica mainstream. Il primo set si conclude con ‘Ancestral’, un po’ troppo caotica e a tratti imperfetta – almeno per chi scrive – nella seconda parte strumentale.
La band rientra sul palco dopo quindici minuti di pausa, e i primi due pezzi della seconda parte della serata definiscono al meglio il manifesto wilsoniano di musica senza barriere di genere. Ci vuole sicurezza, coraggio e una buona dose di ironia e malizia per presentare di seguito due canzoni così diverse quali ‘Arriving Somewhere But Not Here’ e ‘Permanating’: tanto lunga, cupa, amata e prog-metal la prima quanto breve, gioiosa, discussa e pop – ma nella tradizione di Beatles e ABBA e non Justin Bieber, come precisa Wilson – la seconda. Eppure, in sostanza, entrambe riassumono la formazione primordiale di Steven, punto di incontro tra il rock concettuale ascoltato dal padre e il dance pop tanto apprezzato dalla madre e si riveleranno due dei momenti migliori della serata, grazie anche alla risposta dei fan che accolgono in tripudio ‘Arriving…’ e senza vergogna si alzano per ballare sulle note di ‘Permanating’.
La dicotomia tra sperimentazione tratta da Deadwing e tradizione da To The Bone si capovolge nelle due canzoni che seguono: in ‘Song Of I’, il pezzo dell’ultimo album solista che dal vivo più si trasforma, Wilson e Hutchings giocano per oltre sette minuti con gli effetti delle loro pedaliere, in un susseguirsi di suoni poco convenzionali che sfociano nel lungo e pesante assolo finale del front-man; ‘Lazarus’, invece, è molto probabilmente la composizione pop più famosa del catalogo dei Porcupine Tree e il pubblico, che conosce il testo a memoria, accompagna all’unisono Wilson e la sua chitarra acustica.
Con ‘Detonation’ la band mette in luce le qualità dei singoli musicisti al servizio del collettivo: Wilson canta la sua lode di rabbia contro Dio con un’aggressività atipica, sostiene i dieci minuti della lunga seconda parte strumentale con un riff funky che facile lo è solo in apparenza e corre avanti e indietro per il palco con la freschezza di un ventenne, mentre la sessione ritmica Blundell-Beggs raggiunge il punto di maggiore e migliore espressione, Holzman delizia il pubblico con un lungo assolo di piano elettrico di chiara matrice jazz e Hutchings ripropone con grande precisione la sua versione dell’assolo in origine registrato da David Kollar.
I potenti riff e falsetti di ‘The Same Asylum as Before’ fungono da preludio al momento forse più emozionante della serata e prima differenza rispetto alle scalette delle date di febbraio: l’esecuzione di ‘Song of Unborn’. La canzone, così come il discorso introduttivo di Wilson, è una lode alla vita, dono unico, magico e inalienabile, anche in un mondo pieno di odio e terrore quale quello in cui viviamo. L’enfasi del brano si riflette nell’animazione di Jess Cope, nella quale un ovulo fecondato diventa immagine allegorica di quel mondo in cui il bambino non ancora nato non dovrà avere paura di vivere e morire. ‘Vermilioncore’ – con Wilson spazientito per il mancato funzionamento della sua tastiera – e ‘Sleep Together’ – pesante, maestosa e teatrale – chiudono il secondo set.
Nella prima parte dell’encore Wilson, accompagnato dalla sua Takamine e da Adam Holzman al piano, propone due ottime versioni acustiche di ‘Blackfield’, che in Italia non veniva suonata dall’ultima discesa nel nostro paese dell’omonimo duo nel 2011, e ‘Postcard’, per sua stessa ammissione una delle canzoni più tristi del suo catalogo – “se state pensando di farla finita vi conviene andare via” dirà scherzando – e di cui ad un certo punto dimenticherà le parole, in un momento di tanto involontaria comicità quanto di complice intimità tra artista e pubblico.La band al completo mette il punto finale al concerto con ‘Sound Of Muzak’ dei Porcupine Tree, con i fan chiamati in causa per cantare da soli il ritornello dopo il magistrale assolo di Wilson, e ‘The Raven that Refused to Sing’, accolta da un boato non appena lo schermo riproduce il primo frame del video.
E in questo modo finisce, dopo poco più di tre ore, il lungo giro sulla montagna russa del pianeta Wilson: un saliscendi continuo e variegato, sicuramente affascinante e forse non accessibile a tutti, specie in un mondo fatto di etichette e categorie quale quello della musica contemporanea. Wilson questo lo sa ma, come sempre ha fatto, non se ne preoccupa affatto.Infatti, proprio dopo aver prodotto il disco più accessibile della sua carriera solista si è imbarcato nel tour più complesso, tanto per confermare quello che qualche fan aveva messo in dubbio dopo To The Bone e la sua promozione: lui ragiona solo con la sua testa e, in barba alle regole del mainstream, accresce il suo successo di giorno in giorno senza commettere mezzo errore.
E così, dopo le tante soddisfazioni già raggiunte nell’ultimo anno, il To The Bone World Tour proseguirà per tanti mesi ancora, e questo spettacolo – riproposto già la sera dopo Verona nella stupenda cornice del parco della Palazzina di Caccia di Stupingi (TO) con l’unica differenza di ‘Even Less’ al posto di ‘Postcard’ – siamo certi continuerà a stupire i fan di tutto il mondo.
Recensione di Marco Del Longo; foto di Rebekka Fagnani